Parità salariale: quando l’efficienza economica attrae i talenti

L’attuale pandemia porta con sé un effetto regressivo sulla diversità e l’inclusione di genere.

È questo il rischio denunciato da McKinsey in un articolo appena pubblicato che sottolinea come i lavori svolti dalle donne siano 1,8 volte più precari e quindi più vulnerabili in tempi di crisi rispetto a quelli degli uomini.

Un dato confermato per l’Italia anche dagli ultimi dati Istat: a maggio la diminuzione dell’occupazione su base mensile ha convolto soprattutto le donne (-0,7% contro – 0,1% degli uomini, pari rispettivamente a -65mila e -19mila).

Una delle cause principali di questa vulnerabilità è che le donne hanno un doppio lavoro, di cui quello non pagato – domestico, di cura – è spesso quello più rilevante ed impegnativo.

Home schooling VS home working

home schooling

Basti pensare che durante la Fase1, le donne in Italia hanno dedicato 79 ore settimanali al lavoro domestico non retribuito, più del doppio rispetto ai papà (55 dei papà).

Durante il lockdown, le famiglie hanno dovuto accudire i figli e contemporaneamente proseguire l’attività lavorativa, ma a farsi carico di questo lavoro aggiuntivo sono state le donne e questo sta avendo, in base ai dati dell’Università Cattolica, un doppio impatto negativo, a livello personale e lavorativo.

A livello personale perché chi ha figli e si occupa personalmente di loro ammette che si è trovata a dover scegliere dove porre le proprie priorità, tra famiglia e lavoro durante questo periodo di crisi, che ci ha lasciati soli in casa, in un presente continuo di home schooling e home working.

Ma anche a livello lavorativo perché coloro che si occupano da soli dei figli indicano di avere difficoltà a concentrarsi sul lavoro a causa di pensieri riguardanti la cura, e ammettono che le prestazioni sul lavoro ne potrebbero risentire.

Una degli antidoti principali a questa vulnerabilità dell’occupazione femminile sarebbe quindi far sì che il lavoro della donna – all’interno di un nucleo famigliare – non sia per forza considerato come sussidiario, secondario all’interno all’economia domestica.

E per farlo – oltre ad un cambio di passo culturale e al superamento degli stereotipi di genere in famiglia – serve anche che le donne siano pagate, a parità di ruolo e di ore lavorate, lo stesso degli uomini.

Parità salariale: dalla “paghetta” alla pensione

differenza salariale uomo donna

Un traguardo che ancora molti considerano come acquisito ma che in realtà è lontano dall’essere raggiunto: In Italia le donne nel settore privato guadagnano in media il 20,7% in meno degli uomini.

E come se al bancone un uomo pagasse un caffè 1 euro, una donna 1 euro e 20 centesimi.

Un divario che non è solo economico ma anche culturale e che comincia già dall’infanzia, con la paghetta: solo il 42,1% delle ragazze la riceve regolarmente e in cambio di un aiuto domestico, rispetto al 58% dei ragazzi.

Questo differenziale di genere si consolida poi con la laurea e il primo impiego: a un anno dall’ingresso nel mercato del lavoro le ragazze guadagnano il 17,3% in meno rispetto ai ragazzi. 

A parità di posizione ed anzianità, anche le donne manager in media percepiscono il 15% in meno rispetto ai colleghi maschi.

E nei ruoli di maggiore responsabilità questa disparità tra uomini e donne si amplia: per i dirigenti la retribuzione oraria è oltre una volta e mezzo quella delle dirigenti.

Le donne nei Consigli d’Amministrazione arrivano a guadagnare anche il 69,8% in meno.

Le differenze accumulate durante la vita lavorativa si riflettono anche nella pensione: le donne prendono il 28,6% in meno rispetto agli uomini.

Questa differenza sociale ed economica tra uomini e donne ha un costo sociale ed economico che i paesi europei e le aziende stanno tentando di affrontare.

In Inghilterra per legge dal 2017 tutte le aziende con più di 250 dipendenti sono obbligate a rivelare e pubblicare la differenza di salario tra uomini e donne, con la logica del “comply or explain”.

La legge è servita prima di tutto a fotografare il fenomeno, per poter poi mettere in campo misure correttive, urgenti e necessarie: è emerso infatti che il 78% delle imprese paga meno le donne degli uomini, su un campione di oltre  10mila aziende.

Questo approccio molto pratico e funzionale è una via di mezzo tra un approccio conservativo da un lato – come in Germiania e negli Usa – dove è la professionista a dover dimostrare l’esistenza di un eventuale divario, chiedendo un’indagine interna alla propria azienda, con tutti i rischi del caso.

E un approccio normativo dall’altro – come in Francia e ancor più nei Paesi scandinavi e in Svizzera – dove c’è una certificazione di parità salariale obbligatoria, con controlli e sanzioni.

Anche in Italia il dibattito è aperto, perché la direttiva europea sulle dichiarazioni di bilancio non finanziarie richiede di rendicontare anche informazioni sulla gestione dei propri collaboratori e le politiche retributive.

La certificazione Equal-salary

certificazione equal salary

Al momento ci sono diversi progetti di legge allo studio, proposti dalle diverse forze politiche. Ma nel frattempo le aziende – come spesso succede – stanno anticipando la norma e si muovono da sole.

Ha fatto scalpore all’inizio del mese l’annuncio che La Ferrari ha ricevuto la certificazione Equal-salary da parte dell’omonima fondazione svizzera.

Un riconoscimento che è il risultato di una scelta strategica e di un impegno durato mesi: la Ferrari infatti tra il 2016 e 2019 ha visto aumentare il numero delle proprie dipendenti dall’11,5% a oltre il 14% e da qui è nata l’esigenza di una politica di parità salariale.

La certificazione, privata e a carico dell’azienda, viene rilasciato dalla fondazione Equal-salary a seguito dei risultati di un’analisi – della durata di otto mesi – che prende in esame le politiche e le pratiche adottate dalle società nell’ottica di tutela della “diversity&inclusion”, con il supporto di PWC.

Questa certificazione è stata presa a livello internazionale anche da Philip Morris e c’è un crescente interesse sul tema.

Perché la parità salariale oltre ad essere un tema di equità sociale per i paesi europei, è anche un tema di efficienza economica per le imprese, in termini di attrazione e di sviluppo dei talenti.