Diversity & Inclusion: l’intervista ad Alexa Pantanella

Alexa Pantanella, dopo una carriera nella comunicazione e nel marketing, in agenzia e in azienda, ha fondato Diversity & Inclusion Speaking, start up specializzata nella ricerca e formazione sui linguaggi inclusivi. L’abbiamo intervistata per capire quale ruolo giochi il linguaggio nell’ambito della Diversity & Inclusion e perché sia così importante.

Inclusione

EMA PARTNERS: Come mai hai iniziato a occuparti del linguaggio della diversità e dell’inclusione?

Alexa Pantanella: «Mi sono accorta che nonostante le diversità fossero piuttosto valorizzate nelle aziende, non c’era nessuno che si occupasse anche del linguaggio collegato all’inclusione. Pensavo al linguaggio del quotidiano, non quello delle campagne di comunicazione, ma quello delle riunioni, delle mail, dei corridoi, della macchinetta del caffè.

Come è possibile raggiungere un’inclusione piena se continuiamo a parlare la lingua dell’azienda di prima? Non si tratta solo di mettere delle persone diverse in una stanza a lavorare, non è questione di quote, ma di farle sentire nella condizione di mostrare il loro valore e sentirsi parte di qualcosa. Per decenni gli uffici sono stati frequentati dallo stesso tipo di persona: maschio, eterosessuale, bianco, senza disabilità. Ora non è così, è la realtà che è entrata in ufficio. La si chiama diversità, ma io milito per non usare questa parola, ma realtà. La realtà è che non c’è solo il maschio bianco etero senza disabilità. Mi sono chiesta come parlare nelle aziende per far sì che le persone che non sono parte della vecchia norma possano essere veramente incluse.»

EP: Che rapporto c’è tra Diversity e Inclusione?

AP: «Il semplice stare non è sufficiente. Non è l’esserci, il contarci che fa diversity. La diversity è una fotografia: è un fatto che ci siano persone diverse con background diversi, scelte diverse, che portano cose diverse, ma è nel momento in cui si lavora su aspetti di inclusione che si decide di farla contare questa diversità. Si dice che la diversità sia un dato di fatto, l’inclusione una scelta

Inclusione riunione

EP: Perché ti sei concentrata proprio sul linguaggio?

AP: «Perché il linguaggio è qualcosa da cui non possiamo prescindere. Quando lavoriamo insieme ci parliamo, scambiamo dei contenuti e delle informazioni. Il linguaggio ci aiuta sul piano cognitivo, ci mette in relazione e ci permette di chiamare persone e cose. Cognitivamente abbiamo bisogno di dare nomi alle cose e alle persone per poterle processare. A seconda delle parole che uso, il pensiero va in un senso o in un altro: dire sottoposto anziché collaboratore, non è la stessa cosa.
Presentare un uomo come dottore, ingegnere e una donna come signora o signorina implicitamente dice che, in qualche modo, anche se mi hai portato in riunione, mi stai dando un ruolo diverso dal collega uomo. Sono come delle polveri sottili che aleggiano nell’ambiente lavorativo e che senza rendercene conto – perché non si tratta di volontà di offendere – non favoriscono l’inclusione, non fanno sentire le persone allo stesso livello e che hanno le stesse opportunità e si possono esprimere nello stesso modo.»

EP: Come possiamo accorgerci e lavorare su queste «polveri sottili»?

AP: «Questo è proprio quello di cui ci occupiamo noi. Lavoriamo su un modello che si basa su cinque C, a partire dalla consapevolezza.

  1. Consapevolezza. Se non partiamo da un primo livello in cui ci accorgiamo del significato di quello che diciamo, è difficile poterlo modificare. Se qualcuno ci spiega la percezione e l’emozione che gli suscita qualcosa che uso nel mio linguaggio, allora quello può essere la wake up call. E allo stesso modo dobbiamo fare attenzione sull’effetto che fa su di noi.
  2. Conoscenza. Conoscere il più possibile ciò e chi percepiamo diverso da noi. Se non ho idea di cosa voglia dire essere, per esempio, una persona sorda, mi devo documentare, perché altrimenti rischio di cadere in pregiudizi e stereotipi.
  3. Confronto. Ci aiuta ad avere maggiore conoscenza. Se devo relazionarmi con qualcuno o qualcosa che sento come diverso, mi devo confrontare, devo passare del tempo di qualità per capire che cosa voglia dire avere una disabilità, un orientamento diverso, un’altra religione.
  4. Coerenza. Il linguaggio non è solo un dire, è anche un fare e ci vuole coerenza trai diversi registri: in un contesto formale sono molto attento, ma poi in un contesto informale mi lascio andare a battute o linguaggio scomposto. Coerenza anche tra l’interno e l’esterno dell’azienda. Può capitare di raccontare a livello aziendale che nel linguaggio siamo inclusivi in molti modi, ma poi all’interno, nelle riunioni, nelle e-mail circola altro.
  5. Costanza. Non basta parlarne una volta per modificare radicalmente il linguaggio, bisogna rimanerci sopra. È un lavoro, che ciascuno si prende nel proprio relazionarsi, nel dire che ci continua a lavorare, a farci caso.»
Inclusione amici

EP: Ci sono degli esercizi per iniziare a prendere consapevolezza del proprio linguaggio?

AP: «Si può provare a sostituire una parola in un modo di dire. Questo ci mostra come molte cose siano socialmente accettate e non ci si faccia neanche caso, ma sono una forma di discriminazione. Per esempio: donna al volante, pericolo costante. Se invece della donna metti una persona di colore… nero al volante, pericolo costante. La discriminazione diventa molto evidente, ma siccome sono luoghi comuni, socialmente accettati, non ce ne accorgiamo neanche. La cosa cambia se sostituisci lo stereotipo di genere con un aspetto razziale, che invece socialmente non è accettato. È il principio di commutazione. Non bastano però dei quick tip di questo tipo. Bisogna accompagnare le persone perché il rischio è che si abbia un effetto solo superficiale, mentre bisogna capire nel profondo che cosa succeda. Questo è quello di cui mi occupo io oggi.»